Riassunto del manuale ” Letteratura Latina. Una sintesi storica “
di Cavarzere, De Vivo, Mastandrea
ultima edizione
Seguono alcune pagine dimostrative del riassunto Letteratura Latina di Cavarzere.
Quando, con la prima rappresentazione teatrale di Livio Andronìco ai Ludi Romani (giochi romani) del 240 a.C., si fa tradizionalmente iniziare la letteratura latina, Roma aveva dietro di sé un mezzo millennio di storia e si avviava a diventare, se già non era, una grande potenza mediterranea.
Nei secoli precedenti essa aveva imposto il suo dominio a tutta l’Italia centrale subappenninica; poi, dal 300 a.C circa, aveva esteso la sua sfera di influenza alle regioni di antica cultura greca del Mezzogiorno e, dopo la vittoriosa conclusione della prima guerra punica (contro Cartagine) nel 241 a.C., anche alla Sicilia.
Questi ultimi avvenimenti ebbero conseguenze di vastissima portata: perché, se in precedenza i rapporti tra Romani e insediamenti greci del Sud erano basati soprattutto sull’attività commerciale, ora i Greci di quelle regioni si trovarono addirittura integrati nella società romana e finirono così con l’accelerare il processo di assimilazione della loro cultura da parte della potenza egemone. Tale processo, in realtà, si era avviato da tempo: da quando Roma, una società ancora a livello etnologico, era entrata in contatto con le colonie greche portatrici di una cultura più evoluta, ed era stata spinta quasi inevitabilmente ad impossessarsi del loro patrimonio di esperienze linguistiche, tecnologiche e anche mitiche per ampliare le sue conoscenze e migliorare il proprio livello di vita.
Non è casuale che l’origine della scrittura a Roma (attestata almeno dal VII secolo a.C.) sia legata nella tradizione a miti di origine greca relativi all’istituzione di culti e alla fondazione della città. L’uso della scrittura, pur saldamente radicato nella vita di Roma, vi aveva però un ruolo limitato all’ambito economico, politico e religioso, senza cioè finalità letterarie, ed era privilegio quasi esclusivo di una minoranza molto ristretta di cittadini appartenenti alla classe dirigente, oppure di determinate categorie professionali, anche di rango servile (scribae). Per quanto riguarda la religione, scritte erano
- sia le pratiche divinatorie dei cosiddetti libri Sibillini, che contenevano istruzioni su come placare le divinità
- sia le preghiere o le altre formule liturgiche la cui efficacia trovava nella correttezza verbale la sua prima garanzia sia, infine, le compilazioni dei pontefici.
Questi ultimi, oltre a svolgere funzioni sacerdotali, avevano anche un rilevante ruolo sociale, che si esplicava nella conservazione della memoria e delle tradizioni civili mediante la registrazione di atti pubblici e degli avvenimenti più importanti della comunità e la costituzione di archivi ufficiali. Alla scrittura erano poi affidati i trattati internazioni (con i Latini, con la stessa Cartagine) oppure le relazioni con le colonie, sulle quali Roma mantenne sempre un rigido controllo. Scritti, infine, ed esposti al pubblico, erano alcuni testi legislativi, come quello decemvirale delle Dodici Tavole: un insieme di norme fondamentali del diritto civile, che non chiarivano però i dettagli della procedura legale, i quali rimasero affidati all’interpretazione dei giudici.
Direzione di una progressiva laicizzazione (non religioso) del diritto. Esisteva dunque un uso ristretto e pratico della scrittura, permeato di significati religiosi ed elitari in una società che fino a tutto il III secolo a.C. doveva essere scarsamente alfabetizzata.
Alle procedure scritte si intrecciarono, per tutto questo periodo, quelle orali, che avevano anzi un’importanza anche maggiore e alle quali soprattutto furono affidate le manifestazioni di carattere preletterario della Roma arcaica. Tra queste un ruolo particolarmente rilevante avevano quei testi che si è soliti designare con la denominazione complessiva di carmina: componimenti di forma espressiva a mezzo tra la prosa e la poesia, suddivisi in membri e incisi minori, tra loro legati da rapporti di parallelismo per ciò che riguarda il significato, la struttura grammaticale e vari effetti fonici (allitterazione, assonanze, rime, ..). Di tali carmi ci sono testimoniati
- quelli dei collegi sacerdotali dei Salii o dei fratres Arvales (talora anche in redazioni scritte modernizzate, perché la pratica dell’oralità sopravvive anche quando la scrittura si era ormai imposta nelle forme letterarie)
- quelli cantati a turno dai convitati nei banchetti in lode degli uomini illustri, oppure del popolo o dai soldati durante i trionfi dei generali vittoriosi
- quelli profetici dei vates
- le neniae funebri
- i Fescennini, versi licenziosi probabilmente associati alla città etrusca di Fescennium recitati in particolare nel corso dei matrimoni
Livio Andronico
Origine delle rappresentazioni sceniche in Roma nel racconto dello storico Tito Livio: “epidemia. Perciò non si fece nulla degno d’essere ricordato. Tra gli altri mezzi tentati per placare la collera celeste si istituirono anche degli spettacoli scenici (una novità per quel popolo bellicoso che fino allora non aveva conosciuto che lo spettacolo del circo). Del resto anche questa manifestazione, come in genere tutte le innovazioni, fu di valore modesto, e per di più importata dall’estero. Senza un testo cantato, senza gesti che mimassero il canto, artisti fatti venire dall’Etruria, danzando al suono del flauto, eseguivano secondo il loro costume movimenti non privi di grazia. I giovani romani presero poi a imitarli. La novità, quindi, fu ben accetta e, con l’essere tante volte ripetuta, fu portata ad un livello più alto. Essi non più, come prima, si scagliavano tra loro in alterna improvvisazione versi senz’arte e rozzi, simili ai Fescennini, ma rappresentavano compiutamente satire piene di motivi musicali, con un canto regolato dall’accompagnamento del flauto e con movenze appropriate al canto.
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Alcuni anni dopo Livio Andronìco, lasciando le satire, osò per primo comporre un’opera drammatica con intreccio unitario. Si racconta anche di quando, essendo egli stesso attore delle sue opere (cosa che del resto allora tutti facevano), ebbe un abbassamento di voce per le repliche insistentemente pretese dal pubblico: chiesto il permesso, pose un fanciullo a cantare davanti al flautista e poi eseguì l’azione scenica richiesta dalla parte cantata con una mimica tanto più efficace in quanto l’uso della voce non l’impacciava più. D’allora in poi gli attori presero ad accompagnare con i gesti i pezzi cantati, e soltanto le parti dialogate rimasero affidate alla loro voce.
Poiché, con questa forma di teatro, la rappresentazione veniva a perdere il suo carattere giocoso e sboccato, e il divertimento s’era trasformato a poco a poco in vera e propria arte, la gioventù, lasciata la recita dei drammi agli attori professionisti, prese, secondo l’uso antico, a scagliarsi scambievolmente lazzi comici in versi: cosa che in seguito prese il nome di exodia. Questo genere di rappresentazione, importato dagli Oschi, la gioventù se la tenne per sé e non permise che fosse contaminato dagli attori di professione”.
Queste sono solo alcune delle 250 pagine che compongono il riassunto completo di Letteratura Latina di Cavarzere.
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